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Qualifica di psicologo clinico
L’impiego della qualifica di psicologo clinico non gode di una specifica tutela normativa. Il nostro ordinamento, infatti, prevede specificatamente il titolo di psicologo (art. 1 L. 56/1989) e di psicoterapeuta (art. 3 L.56/1989), con riferimento alle rispettive abilitazioni.
La qualifica di psicologo clinico, dunque, è normalmente riferita allo psicologo (con relativa abilitazione e iscrizione all’Albo), che svolge la propria attività professionale nel contesto clinico, ossia riferita all’ampia accezione di salute che comprende ogni atto professionale rivolto al benessere psicologico.
Dunque lo psicologo iscritto alla sezione A dell’Albo può impiegare opportunamente la qualifica di psicologo clinico, avendo riguardo alla propria personale preparazione, esperienza e competenza professionale, tenuto conto di quanto disposto all’art. 39 del Codice Deontologico.
Articolo 39 Lo psicologo presenta in modo corretto ed accurato la propria formazione, esperienza e competenza.
Dunque solo lo psicologo privo di formazione ed esperienza nel contesto clinico (a titolo esemplificativo, lo psicologo del lavoro che opera esclusivamente in tale contesto), dovrà astenersi dall’impiegare la qualifica di “clinico” onde non incorrere in una violazione deontologica.
Tuttavia l’uso della qualifica di psicologo clinico può apparentemente sovrapporsi al più specifico titolo di Specialista in Psicologia Clinica, ossia a coloro che hanno frequentato con profitto la scuola di specializzazione in Psicologia Clinica, riservata agli psicologi, della durata non inferiore a quattro anni, il cui conseguimento abilita all’esercizio della psicoterapia, al pari delle altre scuole di psicoterapia autorizzate ai sensi dell’art. 3 L. 56/1989.
Come detto, la sovrapposizione è solo apparente, nondimeno è compito del professionista, per preciso dovere deontologico (V. art. 39 Codice Deontologico), rendere sempre e chiara e trasparente, alla propria utenza e ad ogni soggetto interlocutore, la propria competenza e formazione professionale.
Dunque, ogni professionista che in qualche misura consapevolmente approfitti a proprio beneficio del possibile fraintendimento fra le diverse qualifiche e abilitazioni incorre in un illecito deontologico, con relativa responsabilità disciplinare.
In tal caso anche la formale correttezza nell’impiego delle diciture non fa venir meno la responsabilità deontologica, qualora il professionista sia conscio del possibile fraintendimento e non abbia posto in essere le dovute accortezze al riguardo, venendo meno al proprio dovere di trasparenza.
Data di pubblicazione 27/09/2023
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La qualifica di psicologo clinico, dunque, è normalmente riferita allo psicologo (con relativa abilitazione e iscrizione all’Albo), che svolge la propria attività professionale nel contesto clinico, ossia riferita all’ampia accezione di salute che comprende ogni atto professionale rivolto al benessere psicologico.
Dunque lo psicologo iscritto alla sezione A dell’Albo può impiegare opportunamente la qualifica di psicologo clinico, avendo riguardo alla propria personale preparazione, esperienza e competenza professionale, tenuto conto di quanto disposto all’art. 39 del Codice Deontologico.
Articolo 39 Lo psicologo presenta in modo corretto ed accurato la propria formazione, esperienza e competenza.
Dunque solo lo psicologo privo di formazione ed esperienza nel contesto clinico (a titolo esemplificativo, lo psicologo del lavoro che opera esclusivamente in tale contesto), dovrà astenersi dall’impiegare la qualifica di “clinico” onde non incorrere in una violazione deontologica.
Tuttavia l’uso della qualifica di psicologo clinico può apparentemente sovrapporsi al più specifico titolo di Specialista in Psicologia Clinica, ossia a coloro che hanno frequentato con profitto la scuola di specializzazione in Psicologia Clinica, riservata agli psicologi, della durata non inferiore a quattro anni, il cui conseguimento abilita all’esercizio della psicoterapia, al pari delle altre scuole di psicoterapia autorizzate ai sensi dell’art. 3 L. 56/1989.
Come detto, la sovrapposizione è solo apparente, nondimeno è compito del professionista, per preciso dovere deontologico (V. art. 39 Codice Deontologico), rendere sempre e chiara e trasparente, alla propria utenza e ad ogni soggetto interlocutore, la propria competenza e formazione professionale.
Dunque, ogni professionista che in qualche misura consapevolmente approfitti a proprio beneficio del possibile fraintendimento fra le diverse qualifiche e abilitazioni incorre in un illecito deontologico, con relativa responsabilità disciplinare.
In tal caso anche la formale correttezza nell’impiego delle diciture non fa venir meno la responsabilità deontologica, qualora il professionista sia conscio del possibile fraintendimento e non abbia posto in essere le dovute accortezze al riguardo, venendo meno al proprio dovere di trasparenza.
Data di pubblicazione 27/09/2023
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