Zehra Dŏgan
per la psicologia dei diritti umani dell'OPL
Diyarbakyr-Turchia, 1989

Zehra Dŏgan è un’artista turca che ha sposato la causa curda, popolo disperso fin dalla caduta dell’impero Ottomano tra Turchia, Iraq e Siria. Essa racconta attraverso disegni, pitture e performance il dramma di uno stato che non esiste sulle mappe e, soprattutto, nella considerazione e riconoscimento da parte della Turchia. Per questo suo attivismo, Dŏgan nel 2016  viene accusata di fiancheggiare l’organizzazione terroristica PKK e viene quindi arrestata e condannata a 2 anni 9 mesi e 22 giorni di reclusione. La detenzione non fiacca la sua resistenza ed in carcere continua a fare opere, alimentando così la conoscenza della sua condizione presso i mass media. Le sue sono opere che riflettono la violenza sulla donna e la negazione di diritti umanitari per autodeterminazione dei popoli. Per ciò, come donna e artista, è stata sostenuta da organizzazioni umanitarie come Amnesty International e da artisti quali Ai Weiwei e Banksy,  da musei internazionali come il Drawing Center di New York o la Tate Modern di Londra. In Italia sue opere sono visibili presso la Prometeo Gallery di Milano.
Zehra Dŏgan parla di identità femminile e del corpo, dipingendo con  sangue mestruale, urina e miscele naturali su tappeti, teli e mappe curde, uscendo consapevolmente dai tradizionali canoni occidentali. A tal proposito dice:  “In che modo il corpo è diventato una prigione per le donne quando invece dovrebbe essere considerato una parte di ciò che siamo e non solo una forma di possesso? Come è stato possibile trasformare la biologia in ideologia? In che modo gli esseri umani, definendo se stessi attraverso i loro corpi, si sono chiusi in norme sessiste?” Si tratta di un’arte di protesta che rivendica la libertà d’espressione ed esistenza con in immagini che mostrano la nudità del corpo con cui far risaltare ferite fisiche e psicologiche. Per questo l’artista si serve anche del proprio corpo sia in pittura che con azioni performative in cui essa appare con le mani legate e con un vestito da sposa sui cui lunghi strascichi ha disegnato simboli calligrafici che associano definizioni di corpo femminile e violenza, definite dall’artista “parole proibite”.
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